venerdì, Novembre 22, 2024

Un dettaglio minore di Adania Shibli

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a cura di Roberto Fiorini

 

Estate 1949.
Un anno dopo la guerra che i palestinesi chiamano Nakba (la catastrofe), che ebbe come conseguenza l’esodo e all’espulsione di oltre 700.000 persone, e che gli israeliani celebrano come la Guerra d’indipendenza, alcuni soldati israeliani attaccano un gruppo di beduini nel deserto del Negev, uccidendo tutti tranne un’adolescente.
La ragazza viene catturata, stuprata, uccisa e sepolta nella sabbia.

Un dettaglio minore di Adania Shibli edito da La Nave di Teseo con la traduzione di Monica Ruocco rivela con una prosa a tratti inquietante ma sempre molto precisa, quanto sia ancora difficile riunire i frammenti di una narrazione rimasta troppo a lungo nascosta nelle pieghe della storia.

La difficoltà di rappresentare l’atrocità è al centro di una narrazione sofisticata che esplora impietosamente i limiti dell’empatia e il desiderio di rimediare o scrivere ai torti storici dando voce a chi non ha avuto voce.
Ai giorni nostri infatti una donna di Ramallah prova a decifrare alcuni dettagli che aleggiano attorno a quell’omicidio di ottanta anni prima.
È colpita da quel delitto a tal punto da trasformarlo in un’ossessione, non solo a causa dell’efferatezza del crimine, ma anche perché è stato commesso esattamente venticinque anni prima il giorno in cui è nata.

Adania Shibli è una scrittrice palestinese che vive a Berlino.
Decide di aprire il suo romanzo con il racconto di un plotone israeliano che si accampa al confine con l’Egitto.
Interminabili giornate senza incidenti vengono interrotte quando un’unità di pattuglia si imbatte in un gruppo di nomadi e li uccide all’istante.
I soldati si muovevano attraverso la macchia di verde circondata da infinite dune di sabbia, setacciando l’area alla ricerca di armi, non hanno trovato armi” scrive.

L’autrice sviluppa fin da subito e magistralmente due narrazioni che si sovrappongono e, in trasparenza, evocano un presente che non può prescindere da ciò che è stato.
Se da un lato l’impassibilità del linguaggio genera inquietudine e talvolta distacco, dall’altro è principalmente fonte di orrore tra le righe, mai fine a se stessa.
Concentrandosi sull’azione, senza spazio per pensieri o sentimenti, e nemmeno per i nomi, il racconto in terza persona si attiene al punto di vista dell’ufficiale in carica, con pochissimi dialoghi e nessuno che non sia il suo.

Il linguaggio, come una regia scenica, è sconcertante.
Nella traduzione dall’originale arabo gli eventi sono registrati minuziosamente ma senza emozione, non ultimo quando l’ufficiale afferra l’unica superstite, una giovane donna, e la riporta al campo raccontando: “ha riportato indietro la mano sinistra e l’ha presa per la gola, ha chiuso la mano destra in un pugno e gliel’ha scagliata in faccia. Dopodiché la ragazza non si mosse. Poi le sollevò la camicia sopra il petto e adagiò il suo corpo sopra il suo“.

A metà il romanzo si apre straordinariamente per raccontare la testimonianza in prima persona di una donna nella Ramallah ai giorni nostri.
Ossessionata da un articolo di giornale sui crimini narrati nella prima parte del romanzo, non riesce a scrollarsi di dosso l’idea di indagare in qualche modo la storia dal punto di vista della vittima, un progetto che la porta a intraprendere un rischioso viaggio on the road verso sud, attraverso villaggi rasi al suolo da tempo, verso un sito ben oltre la zona consentita dalla sua carta d’identità.
Il romanzo cambia registro diventando più colloquiale e regalando un ritratto della vita quotidiana sotto occupazione.
Come ci si sente, ad esempio, quando i soldati fanno saltare in aria l’edificio accanto al tuo ufficio per colpire i bersagli nascosti all’interno, e ti ritrovi la polvere che sa di morte che soffia sulla tua scrivania?
Da un certo punto di vista si potrebbe intravedere nel destino della narratrice una lezione su come cercare di raccontare storie di sofferenza.
Ma non è così, sarebbe davvero riduttivo.

Alla fine l’unico punto di vista che abbiamo viene dal racconto dell’aggressore, agghiacciante e impassibile.
Lo stupro di gruppo nel Negev al centro del romanzo è una storia vera, compiuta dai soldati israeliani nel 1949.
Un altro piccolo dettaglio.
Secondo i documenti declassificati, il comandante nella vita reale ha risposto alla domanda del suo superiore sul fatto che la ragazza fosse stata alla fine riportata al suo villaggio riferendo che i suoi soldati l’hanno uccisa perché “era una vergogna sprecare la benzina“.
L’atmosfera è di una tensione a tratti insopportabile, misurata dall’ansia crescente del cane che si erge come sentinella inerme sulla ragazza.
Ulula e piange, ansima e trema, abbaiando all’infinito.
La scrittura è invece calma e strettamente controllata, lirica nelle sue descrizioni di crudeltà e incertezza.

Il terrore evocato si intensifica lentamente, fino a bruciare, fino ad esplodere sulla pagina.
Nella seconda parte milioni di persone sono confinate in zone controllate, con un sistema draconiano di permessi se desiderano viaggiare da una zona all’altra.
La donna narratrice senza nome è residente nell’Area A e deve viaggiare nell’Area C, un’idea impossibile anche per chi vive nell’Area B.
Le divisioni sono assurde e questa investigatrice dilettante dichiara l’incapacità di identificare correttamente i confini anche mentre naviga tra le loro soffocanti restrizioni.
Convince un collega a darle la carta d’identità dell’Area C e qualcun altro a noleggiarle un’auto con la targa del colore corretto, e parte per la sua missione.

Un romanzo politico?
Tutti i romanzi sono politici e Minor Detail, come i migliori, trascende l’identità e la geografia dell’autore.
La scrittura è sottile e acutamente precisa.
I coloni e i soldati che descrive nella seconda metà del romanzo sono resi senza malizia o artificio.
Scrive con tenerezza delle mani venate di un anziano colono, e come autrice non giudica mai.
Il libro è, in vari punti, un pugno allo stomaco ma ad ogni angolo diventa anche pericolosamente accogliente.

In entrambe le parti del libro, Adania Shibli presta molta attenzione ai movimenti esatti dei corpi che descrive.
Anche se il periodo storico e le prospettive cambiano, la scrittura è sempre descrittiva, dettagliando minuziosamente ogni movimento che i protagonisti fanno.
In un luogo in cui i confini e i paesaggi cambiano continuamente, l’autrice dà la sensazione che tutto ciò su cui si può contare sono i movimenti fisici discreti del corpo di una persona.
Presta profonda attenzione al modo in cui la violenza, o la possibilità di violenza, colpisce il corpo, e a come essa viene prodotta attraverso la ripetizione, sia attraverso la marcia costante di un perimetro, sia nel calmarsi per tenere sotto controllo la paura.
Queste descrizioni si leggono come una coreografia di violenza, che si ripete più e più volte in forme diverse, ma che è sempre riconoscibile.
Ripeto, descrive ma non giudica.

Forse la consapevolezza della ripetuta ingiustizia a cui non si può sfuggire nel contesto della Palestina è stata la prima forza che ha spinto autrice verso la scrittura del romanzo.
In questa storia l’ingiustizia riguarda un solo evento, riconosciuto da una persona molti anni dopo che si è verificato.
Ma questo non ne diminuisce l’orrore, e scrivendo l’orribile evento nel presente, viene resa la cattiveria con crudele semplicità.

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